L’Italia ha una storia molto complessa rispetto al sistema elettorale dato che, soprattutto nell’ultimo ventennio, il Legislatore è intervenuto diverse volte e il dibattito politico si è acceso sul tema a più riprese. Prima della riforma del 1993 il sistema era nella sostanza proporzionale: adottato per gestire le elezioni dell’Assemblea Costituente, fu recepito dalla legge numero 6 del 1948 e restò in vigore per quasi mezzo secolo. Questo ha determinato una forte frammentazione, con la possibilità anche per forze politiche dal consenso limitato di entrare in Parlamento e condizionarne le vicende. In mezzo un solo tentativo di riforma, naufragato, prima del Referendum elettorale del 1993 che ha storicamente determinato la rimodulazione in chiave maggioritaria. Nel 2005, però, una nuova legge elettorale approvata dalla maggioranza di Centrodestra ha nuovamente cambiato gli equilibri, prima che la Corte Costituzionale ne sentenziasse l’incostituzionalità. Ad oggi, con la legge “menomata” dalla Consulta, si attende una nuova regolamentazione che potrebbe giungere con l’approvazione definitiva del c.d. Italicum.
Un primo tentativo di riforma del sistema elettorale: la c.d. Legge Truffa
L’unico tentativo di riformare la legge elettorale proporzionale si è avuto nel 1953 con il tentativo (fallito) della c.d. Legge Truffa con cui si voleva apportare un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che superasse il 50% dei voti. L’obiettivo sfuggì per poco alla Democrazia Cristiana e ai suoi alleati che alle elezioni politiche del giugno di quell’anno mancarono di un soffio la soglia, fermandosi al 49,25%. La polemica che si alimentò in quella fase portò poi successivamente all’abrogazione del correttivo apposto alla legge elettorale ed il ricordo è rimasto tale da essere invocato ogni qualvolta è stato invocato un passaggio al maggioritario.
In realtà, però, il tentativo sponsorizzato soprattutto da De Gasperi finiva col realizzare un premio “alla” maggioranza e non “per” la maggioranza sebbene le geometrie politiche del tempo non avrebbero favorito una vera alternanza ma semplicemente premiato il centro, che si sarebbe potuto allargare a seconda delle convenienze.
Al di là di questi aspetti, indubbiamente non irrilevanti, va sottolineato che in realtà l’epiteto “truffa” associato alla legge lasciava intendere un chiaro intento anti-anglosassone per una ragione molto semplice: non si voleva in alcun modo riconoscere che lo scopo della legge elettorale, come affermato dallo stesso Bagehot, è quello di offrire una chiara maggioranza e una valida opposizione. All’epoca, invece, pareva essere assai più importante riprodurre con perfezione astratta all’interno del Parlamento le risultanze elettorali. Mentre il sistema anglosassone punta quindi a dare un Governo al Paese, in Italia si è a lungo pensato che esso serva a rappresentare i sentimenti della collettività.
L’aver mancato per pochissimi voti il raggiungimento della soglia, poi, vide mettere in soffitta qualsiasi forma di suggestione anglosassone sul sistema politico-istituzionale italiano. Prese piede, infatti, l’idea che l’Italia non poteva e non doveva essere governata applicando elettoralmente il principio maggioritario e che solo la proporzionalità, con i conseguenti governi di coalizione, poteva essere il miglior viatico verso un’applicazione della Costituzione. Dalla lettura in combinato disposto dell’art. 1 comma secondo e dell’art. 48, infatti, venne teorizzato il principio della costituzionalizzazione (implicita) del sistema elettorale proporzionale. La tesi del «proporzionalismo di composizione» riuscì a tenere a bada negli anni ogni proposito di riforma elettorale, diffondendo l’idea che l’intera Costituzione – non solo nella parte inerente la politica in senso stretto - fosse in qualche modo permeata dal criterio proporzionali stico.
Dal Mattarellum al Porcellum: la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale
Il sistema proporzionale, pur essendo sopravvissuto a lungo, è stato comunque bersaglio di critiche per tanti anni. Nella primavera del 1993 fu avviata la stagione referendaria sotto la spinta soprattutto del Partito Radicale e di diverse anime della società civile: il 18 aprile di quell’anno si votò per ben otto referendum abrogativi, uno dei quali riguardava proprio la legge elettorale del Senato che veniva “manipolata” in senso maggioritario. Il Parlamento non poté restare indifferente e successivamente approvò il c.d. Mattarellum (l. n. 276/1993 e l. n. 277/1993) con lo scopo di venire incontro alla volontà espressa dagli Italiani, sebbene il testo lasciò perplesso lo stesso partito radicale che tanto spingeva per la riforma. Esso prevedeva l’adozione di un sistema prevalentemente maggioritario che assegnava il 75% dei seggi mentre il restante 25% veniva ripartito mediante tecniche proporzionali, con quota di sbarramento fissata al 4%.
L’esperienza di tale impostazione, venuta meno nel 2005 con l’entrata in vigore del c.d. Porcellum (l. n. 270/2005), può considerarsi oggi fallimentare. La speranza di orientare il quadro politico in chiave bipolare non ha trovato concreta attuazione e i partiti minori sono risultati sempre decisivi nell’economia delle coalizioni che si sono confrontate alle elezioni (1994, 1996, 2001). Anche e soprattutto dopo il voto, poi, si è imposta una degradante tendenza alla frantumazione in decine di gruppi parlamentari, spesso oggetto di accostamento al fenomeno della transumanza. «In Parlamento continueranno ad esserci otto o nove partiti. Verrà fuori di tutto, anche partiti regionali»profetizzò Marco Pannella nel commentare la legge Mattarella in corso di approvazione .
Come anticipato, nel 2005 un nuovo cambiamento ha investito il sistema elettorale con l’approvazione di una legge – in questo momento vigente sebbene la sentenza della Corte Costituzionale l’abbia parzialmente dichiarata incostituzionale - sostanzialmente proporzionale, con il correttivo del premio di maggioranza assegnato sulla base di criteri diversi alla Camera dei Deputati e al Senato. Nel primo caso, infatti, a beneficiarne è la lista o la coalizione che riporta il maggior numero di voti a livello nazionale a cui è attribuito il 55% dei seggi disponibili. Nel secondo caso, invece, il premio è computato su base regionale e può determinare, come accadde nel 2006, la particolare situazione che vede la coalizione più votata ottenere meno seggi. Il numero di seggi attribuito da ciascuna regione è diventato fondamentale nella corsa alla vittoria al Senato che, specie nelle tornate più incerte come quella del 2006 e del 2013, si è trasformata in una vera e propria roulette russa. Particolare peso specifico ha assunto, ad esempio, la Lombardia che è stata identificata dai commentatori come l’Ohio d’Italia vista la sua rilevanza strategica, paragonabile a quella del grande stato americano durante l’elezione del Presidente degli Stati Uniti.
Altro aspetto di primaria importanza è quello dell’abolizione del voto di preferenza: i cittadini scelgono la lista che, compilata dai partiti politici, è bloccata, con i candidati indicati nell’ordine che ne sancirà l’eventuale elezione. Il peso specifico del singolo candidato scende, essendo il voto essenzialmente orientato verso il partito o, prima ancora, verso il leader.
Si annovera, infine, l’introduzione della soglia di sbarramento regolata diversamente rispetto al passato. Per ottenere seggi alla Camera è necessario ottenere il 4% dei voti mentre le coalizioni devono raggiungere il 10%. Le liste collegate alla coalizione, invece, partecipano alla ripartizione dei seggi soltanto se superano il 2% dei consensi. Partecipa, infine, alla ripartizione anche il c.d. miglior perdente, cioè il primo partito al di sotto della soglia indicata.
Diversa è l’impostazione per il Senato dove ogni partito o lista deve ottenere almeno l’8% su base regionale mentre le coalizioni devono raggiungere il 20%. Le liste collegate, invece, concorrono alla ripartizione se superano il 3% dei voti.
La l. 270/2005 è stata oggetto di un lungo dibattito politico ed è stata oggetto di analisi da parte della Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 1 del 2014 la Consulta ha di fatto ridisegnato la legge elettorale (ribattezzata da alcuni “Consultellum” ), intervenendo sugli ultimi due aspetti indicati: voto di preferenza e premio di maggioranza.
Nel primo caso, la Corte ha ritenuto che le liste bloccatealterano il rapporto di rappresentanza in quanto limitano agli elettori la possibilità di scegliere. Tali condizioni, hanno sottolineato i giudici, «rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero di candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto».
Sul secondo punto, invece, la Consulta ha dichiarato che il premio di maggioranzaè «un meccanismo premiale manifestamente irragionevole, il quale, da un lato, incentivando il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere al premio, si porrebbe in contraddizione con l'esigenza di assicurare la governabilità, stante la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio si sciolga o uno o più partiti che ne facevano parte ne escano; dall'altro, provocherebbe una alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio sarebbe in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l'altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura». La Corte ha poi evidenziato che il premio determina, con riferimento agli articoli 3 e 48, secondo comma, Cost., discriminazioni geografiche dovute al fatto che, essendo il numero di eletti diverso a seconda della popolazione, il peso del voto tende a non essere equilibrato. E l’analisi dell’incidenza che assume la Lombardia di cui abbiamo detto è un caso emblematico che avalla la tesi dei giudici costituzionali.
Nello specifico, il premio di maggioranza e le “liste bloccate” sono censurate alla stregua della particolare fisionomia disegnata dalla l. 270/2005: fuori da quello schema espressamente contestato, non è escluso che possano essere nuovamente utilizzati come elementi di un sistema elettorale .
La Corte Costituzionale ha affermato, infine, che la pronuncia non è retroattiva, pertanto il Parlamento attualmente in carica è legittimo: può, dunque, da un punto di vista giuridico operare sebbene politicamente tanto ci sarebbe da dire in quanto la maggioranza, di fatto, guida il Paese avendo usufruito di una legge poi dichiarata incostituzionale. Sotto questo punto di vista, sebbene più volte i principali esponenti politici abbiano dichiarato che l’orizzonte della Legislatura in corso è il 2018, pare plausibile che si possa andare nel medio periodo ad elezioni anticipate, soprattutto per restituire una legittimazione piena all’istituzione.
Il sistema che resta in piedi è un proporzionale puro, con preferenze e con gli sbarramenti previsti dal Porcellum. Nel mentre scriviamo, è in corso di discussione in Parlamento una nuova legge elettorale, battezzata con il nome “Italicum” dopo il c.d. Patto del Nazareno in cui è stata concordata. La bozza dovrebbe muoversi nell’alveo della sentenza della Consulta, andando a stabilire una soglia minima di voti per poter ottenere il premio di maggioranza e riducendo la dimensione delle circoscrizioni, pur senza introdurre il voto di preferenza dato che cambierebbero solamente la lunghezza della lista e la grandezza della circoscrizione.
Sarà la storia dei prossimi mesi, influenzata sicuramente dalle vicende politiche che la caratterizzeranno, a stabilire se e come questo progetto vedrà la luce oppure no. I ricatti incrociati delle varie forze in campo, infatti, potrebbero rallentare l’iter parlamentare della legge con la finalità soprattutto di “salvare” la Legislatura e allontanare le eventuali elezioni anticipate il più possibile. Non è un caso che, nonostante la drammatica crisi economica italiana, il tema dell’agenda del dibattito politico sia molto – e forse troppo – spesso la legge elettorale che, sebbene estremamente importante in quanto nodo fondamentale per la riproduzione delle istanze democratiche del Paese, è sicuramente secondaria rispetto ai drammi della disoccupazione e della povertà che dilagano sempre di più nelle fasce più deboli. Portare in Parlamento anche e soprattutto queste istanze può e deve essere il compito della futura legge elettorale che, se da un lato mira sicuramente ad assicurare la governabilità, dall’altro non può assolutamente negare la rappresentanza a molte fasce della popolazione che si sentono sempre più escluse dalla vita politica, economica e sociale.
Un singolare accordo elettorale: la c.d. desistenza
Uno dei pochi meriti che può essere riconosciuto al Porcellum è quello di imporre di rendere note le coalizioni prima delle elezioni: sebbene dal 1994 si sia tentata la strada del bipolarismo, infatti, è solo dal 2005 che la legge disciplina effettivamente la coalizione pre-elettorale. Ciò detto, ovviamente, tiene conto della prassi bipolare europea e dell’idea, diffusa ma non unanime, che alle elezioni debbano fronteggiarsi solo due coalizioni. Vale la pena di ricordare che il caso del 2013 ha quanto meno messo da parte questa convinzione: checché ne dicano i commentatori, il voto popolare è sovrano.
L’accordo di coalizione, però, può anche non essere formalizzato, concretizzandosi in maniera differente mediante la rinuncia di un partito a presentarsi in una serie di collegi uninominali, invitando comunque i propri elettori a votare per gli alleati in virtù di una concessione analoga riservata in un altro collegio. Ciò succede quando le forze politiche sono unite da un obiettivo comune ma hanno al loro interno differenze sostanziali che impediscono un’alleanza organica.
E’ quanto accadde nel 1996 con l’accordo di desistenza fra L’Ulivo e il Partito della Rifondazione Comunista. In quella occasione lo scopo condiviso era battere il Centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Il leader dell’Ulivo Romano Prodi concordò già sul finire del 1995 con i vertici del PRC l’esigenza di costituire un cartello politico-elettorale comune al fine di impedire all’ex Cavaliere di tornare a Palazzo Chigi. Romano Prodi e Fausto Bertinotti promisero che, nel caso in cui dopo il voto non ci fosse stata una maggioranza, il secondo avrebbe sostenuto un governo dell’Ulivo.
Da un punto di vista tecnico, l’accordo fu attuato in questo modo: L’Ulivo garantiva una serie di seggi “sicuri” a Rifondazione rinunciando a presentarsi in alcuni collegi. I Comunisti facevano altrettanto in altri collegi, evitando la dispersione di voti. Tale impostazione fu necessaria in virtù della legge Mattarella allora vigente che, nella quota di maggioritario, imponeva scelte tese a coagulare il consenso. Nella quota di proporzionale, invece, ognuno disputò la propria corsa autonomamente. La desistenza fu fondamentale per la vittoria del Centrosinistra alle elezioni del 1996 unitamente alla rottura che si era consumata nell’alleanza contrapposta: la Lega Nord, infatti, pur correndo da sola raccolse il 10,07% dei suffragi che, sommati al 42,07% del Polo per le Libertà, avrebbero consentito a Silvio Berlusconi di tornare agevolmente alla guida del Paese. Non fu così, invece, perché L’Ulivo ottenne il 43,39% portando con sé per la prima volta gli ex comunisti (Partito Democratico della Sinistra) al Governo dalla porta principale, cioè dalle urne.
Il partito di Rifondazione Comunista, dal canto suo, godette di una vera e propria “golden share” sulla vita dell’esecutivo guidato da Romano Prodi a cui dava soltanto l’appoggio esterno: mentre al Senato, infatti, l’alleanza di Centrosinistra era “autosufficiente” rispetto al PRC con 169 seggi, alla Camera dei Deputati, fin dalla fiducia, il Governo era “appeso” al sostegno di quest’ultimo che gli consegnò una maggioranza di 7 voti. Il patto fece bene anche a livello elettorale ai Comunisti: nel 1996 raggiunsero il loro massimo storico dopo la scissione della Bolognina toccando l’8,6% alla Camera.
Tutto il resto è storia nota: Rifondazione Comunista ebbe un potere tale che riuscì con i suoi veti ad influenzare il Governo in maniera determinante. Fu proprio la sua contrarietà a portare alla caduta di Prodi nel 1998. Ciò non fu, però, indolore: il partito si spaccò, con una componente – che fondò il partito dei Comunisti Italiani guidato dagli on. Cossutta e Diliberto – che sostenne il successivo Governo D’Alema e un’altra che rimase, invece, opposizione.
L’idea della desistenza è tornata di moda anche nel dibattito precedente alle elezioni del 2013 quando, a causa del sistema di voto previsto per il Senato, c’era il rischio – poi concretizzatosi – che non ci sarebbe stata una maggioranza parlamentare a causa del diverso peso specifico dei singoli risultati regionali. La preoccupazione si manifestò nell’ambiente del Partito Democratico che temeva di perdere voti a causa della presenza della lista Rivoluzione Civile capeggiata da Antonio Ingroia. In realtà dal PD non è mai arrivata nessuna richiesta ufficiale, anche se Ingroia ha affermato il contrario . In questa occasione, però, il proposito non si realizzò e non ci fu nessun accordo ufficiale o ufficioso. L’esigenza fu più che altro determinata dai sondaggi che, fino a pochi giorni prima delle elezioni, pronosticavano l’alleanza di Centrosinistra nettamente in vantaggio, eccezion fatta per le storture del sistema elettorale del Senato che avrebbero potuto rimettere in gioco il Centrodestra. In realtà, come è noto, non fu così e un eventuale patto fra PD e Rivoluzione Civile non avrebbe comunque sortito gli effetti sperati dai retroscenisti più provveduti.